L’INAZIONE DEL DIRITTO

“Chi ha favore in corte non può morire di cattiva morte” 

Affidarsi al diritto internazionale significa riconoscere la fittizia necessità dei confini statali ed equivale a delegare, mediare, riflettere.
Tentennare ancorandosi all’inazione.

Il diritto internazionale ci deresponsabilizza e sputa in faccia a chi ha subito un martirio per costruire un rapporto di responsabilità diretta col proprio agire. Come funzionava in realtà arcaiche, tribali ma sicuramente più evolute e funzionali.

Dove inizia e dove finisce, a livello singolo prima e collettivo poi, il diritto internazionale? 

La parvenza attribuita a diritto e comunità  internazionale sembra essere quasi di figura mitologica e non singoli esseri umani aggregati che insieme danno vita a ciò che siamo ossia famiglie, condomini, paesi, città, regioni, nazioni.

Questo sistema onirico e distante garantisce un’impunità normalizzata.
E invece ogni torto subito da un Palestinese, o qualsiasi oppresso nel mondo, per mano dei sionisti ebrei e dei loro servi, deve tramutarsi in una immediata pena per le loro azioni criminose commesse ai danni della collettività.

Quando i sionisti ebrei, suprematisti e coloni, vengono rivelati gli dev’essere impedita l’immunità vittimistica del fantomatico “antisemitismo” e dell’istigazione all’odio razziale.
Chi delinque nel nome del sogno del “grande Israele” venga messo alla sbarra e paghi per i suoi crimini, sia a livello detentivo che a livello di risarcimento pecuniario.

A quando il dovere di rispondere dell’azione terroristica in quanto tale e dell’esigere lo smantellamento della rete tentacolare mafiosa insinuatosi in ogni palazzo?

Chi si muove lungo i termini del diritto internazionale assolve al massimo al suo dovere di certezza e mai a un assoluto dovere di giustizia. 

Notiamo infatti che quando si parla della colonia ebraica e della mafia che la sorregge, gli interpreti preferiscano fare giri lunghissimi per poi perdersi dietro scusanti ipocrite o termini democristiani.

Il diritto internazionale non si pensa e non si realizza umanamente. Non costruisce né edifica, e nemmeno individua, un concetto di responsabilità conforme alla natura reale dell’azione umana, all’effettivo rapporto di immanenza che lega il destino del soggetto, il colono ebreo e qualsiasi sionista ebreo sparso per il mondo, al destino della sua azione in quanto solo sua. 

Dov’è la responsabilità personale di tutti quei suprematisti ebrei che basano la loro vita in funzione del progetto coloniale che difendono a suon di menzogne e terrorismo? Dove quella dei loro tutori e dei loro leader politici e religiosi?

Dove, nel diritto internazionale, risiedono la persona che opprime e quella oppressa? Dov’è la loro tangibilità? 

Senza concretezza da parte di chi si fregia con spocchia di (in)agire nei termini previsti dal diritto internazionale, senza il suo agire fermo, il suo difendere i perseguitati dalla mafia ebraica ponendosi pubblicamente in una posizione di reale precarietà, quelli come Francesca Albanese negheranno sempre il rapporto di responsabilità, e quindi la responsabilità personale non sarà mai collettiva come dovrebbe per sgretolare un sistema alle sue fondamenta tentacolari.

Nessun terrorista ebreo colpevole di crimini contro l’umanità verrà mai inserito in una collettività di un credo fatto ideologia che da generazioni alimenta odio contro l’islam e conseguente suprematismo ebraico.
A nessun antisionista che ha ignorato volutamente la Storia del colonialismo in Palestina verrà mai chiesto di colmare lacune che lo fanno perseverare nella condizione di burattino nelle mani dell’oppressore. 

Così procedendo, il noi come esseri umani verrà sempre meno così come la comunità internazionale di cui facciamo parte… volenti o nolenti!

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